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Cronaca Sezze

Sangue infetto, confermato in Appello maxi risarcimento per una donna di Sezze

Risarcimento da 360mila euro per la donna trasfusa nel 1975 presso l'ospedale di Sezze quando aveva 31 anni; nel 2011 le venne riconosciuto il maxi risarcimento poiché il sangue somministratole venne accertato essere infetto da epatite C

La Corte di Appello ha confermato la sentenza con cui il tribunale di Roma aveva condannato nel 2011 il Ministero della Salute a risarcire con 360mila euro una donna trasfusa nel 1975 presso l'ospedale di Sezze quando aveva 31 anni.

Il pronunciamento, che conferma quanto in primo grado era stato deciso dal tribunale, è arrivato nella giornata di ieri. La causa era iniziata nel 2008 e si era conclusa nel 2011 con il riconoscimento del maxi risarcimento dopo che il sangue somministrato alla donna venne accertato essere infetto da epatite C.

Il Ministero si era appellato alla prescrizione del diritto al risarcimento, al buon uso del sangue da parte dei sanitari dell’ospedale di Sezze e al consenso della donna alle trasfusioni.

“Accogliendo la difese dell'avvocato Renato Mattarelli - si legge in una nota del legale - la Corte di Appello di Roma ha invece confermato la decisione del primo grado poiché la donna di Sezze, come molti altri pazienti pontini, non avevano avuto conoscenza del contagio se non dopo decine di anni, visto che l'epatite C è una malattia che si manifesta, spesso senza sintomi, anche dopo 30 anni dal contagio.

La Corte di Appello, con sentenza n. 2969 dell'11 maggio 2016, ha ribadito che durante il ricovero del 1975 presso il PO di Sezze non vennero effettuati i dovuti controlli sulle sacche di sangue trasfuse alla donna e che se anche all'epoca non era stato reso obbligatorio il test di rilevamento dell'epatite C sulle donazioni di sangue (poiché inventato solo nel 1989) i sanitari del PO Sezze avrebbero potuto evitare il contagio alla donna con strumenti indiretti (termotrattamento del sangue donato per inattivazione di eventuali virus, oppure esclusione delle sacche ricevute per presenza di enzimi rilevatori di epatiti)”.     

“La sentenza che ha confermato la condanna del Ministero della Salute per la condotta dei sanitari di Sezze - spiega ancora Mattarelli - ha evidenziato che non poteva non essere noto alla comunità scientifica e medica, compresa quella dell'ospedale pontino, che a cavallo dell'epoca delle trasfusioni alla donna di Sezze del 1975, vennero pubblicati fra 1965 e il 1983 cinquantadue articoli di studi che informavano i medici dei rischi infettivi epatici delle trasfusioni di sangue.

Evidentemente, le conclusioni sono due: nel trasfondere la donna o i sanitari di Sezze hanno disatteso queste informazioni che avevano a disposizione o non le conoscevano”. 

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