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Cultura

“You Can Dream it in Reverse”: i Black Tail parlano del loro terzo album

Un ritorno al passato per scoprire chi si è oggi: i Black Tail, la passione per la musica, l'adolescenza e il racconto della nascita dell’indie

In un periodo in cui l’Italia deve fermarsi per l’emergenza sanitaria causata dal Nuovo Coronavirus, la cultura non si ferma, gli artisti continuano a creare e i Black Tail, band pontina nostra vecchia conoscenza, proprio oggi 13 marzo salutano l’uscita del loro terzo album “You Can Dream it in Reverse” prodotto da MiaCameretta Records e Lady Sometimes Records.

Nove brani scritti registrati tra il marzo e l’ottobre 2019 al VDSS Studio, come i precedenti album Springtime e One Day We Drove Out of Town, con il prezioso aiuto di Simone Strang. Un album che accompagna dolcemente indietro nel tempo pur restando ben presenti nell’oggi, atmosfere calde e positive, sebbene sempre intimistiche e riflessive.

I Black Tail sono Cristiano Pizzuti (voce, chitarre, organo, wurlitzer / rhodes, mellotron), Roberto Bonfanti (batteria, percussioni), Luca Cardone (basso).
Abbiamo incontrato, purtroppo solo via Skype, Cristiano Pizzuti e Roberto Bonfante per una chiacchierata alla scoperta di questo “You Can Dream it in Reverse”, abbiamo fatto su e giù nel tempo, parlando di musica, di passioni, di emozioni.

A livello musicale questo album sembra più articolato, le sue sonorità appaiono meno rarefatte, più corpose e ritmate, a una dolce malinconia si affianca una sensazione di positività e di consapevolezza dell’oggi. Raccontateci la sua gestazione.

Cristiano Pizzuti: ne abbiamo parlato parecchio prima di iniziare a registrare i provini. Scherzando ci siamo detti che chi fa l’indie rock è come se per tutta la vita cercasse di inseguire quel tipo disco che avrebbe voluto registrare nel momento in cui si è innamorato della musica, avevamo il desiderio di ricreare quel tipo di suono. Ci piaceva questo concetto per il nuovo disco: affiancarlo emotivamente a una cosa che ci ricordava il momento in cui tutto era iniziato per noi.  Inevitabilmente siamo ritornati al periodo dell’adolescenza, o meglio a quel periodo di transizione tra la fine dell’adolescenza e l’età adulta, per questo anche le tinte erano spostate alla fine dell’estate, che simbolicamente ha una forte carica in quel senso, e quindi l’intento era quello di catturare questa specie di malinconia insita nel tipo di paesaggio emotivo che stavamo cercando di costruire, ma parallelamente razionalizzare un po’ la cosa. Dall’idea del "noi adolescenti che pensavamo alla musica" abbiamo dovuto inserire nel racconto anche l’idea del "noi oggi" dopo tutte le esperienze musicali e il tempo passato, che guardiamo un po’ a quel che abbiamo fatto e a quel che vorremmo raggiungere. Ci siamo confrontati con quella che era all’inizio la nostra idea musicale, quando agli inizi era più pura. Anche il titolo deriva da questa suggestione. È un tipo di racconto che fai sia rivedendoti da adolescente che guarda al domani e si chiede “cosa farò negli anni con la musica, visto che mi ha sconvolto così tanto?” e allo stesso tempo hai il te di oggi da cui non puoi prescindere che guarda e tiene a mente quello che eri quando tutto è iniziato. Puoi andare avanti e indietro, sognarlo al contrario a seconda di quale è il tuo punto di osservazione.

Roberto Bonfanti: è come ha detto Cristiano, una rivisitazione delle esperienze avute quando eravamo più giovani di adesso e avevamo la speranza di produrre un disco che venisse fatto in quegli ambiti, ma con la consapevolezza di oggi. E come ha detto lui è un po’ un continuo andare avanti e indietro nel tempo. Catturare emozioni, ricordi e stati d’animo che ci avevano stimolati in quegli anni mettendoli in pratica adesso con la consapevolezza e il proprio essere di oggi. Devo dire che è stato un discorso molto interessante.

In questo album ci sono spesso riferimenti al passato, all’adolescenza, come se, arrivati all’età adulta, si tirassero le primissime somme e si cominciasse a prendere reale coscienza che quel che si è vissuto ci ha resi esattamente come siamo (mi vengono in mente Firecracker e Apple Trees). Cosa vi ha effettivamente portato al punto in cui siete oggi, ovvero Black Tail al terzo album? Quali sono le tappe che vi hanno segnato di più come gruppo e musicisti singoli?

Cristiano Pizzuti: a livello individuale il momento più importante è stato quando mi sono confrontato con la voglia di scrivere le mie canzoni. Di solito quando si inizia si tende a suonare per imparare quindi c’è tutta quella fase di replica della musica che ascolti. Il passo successivo per molti è confrontarsi con la propria scrittura, con la voglia di dire qualcosa e da lì in poi ci sono state diverse esperienze con vari gruppi. Per quanto riguarda i Black Tail, posso felicemente dire, forse per la prima volta, che è il progetto con cui sono arrivato più vicino a quello che avrei mai desiderato esprimere con la musica. Di solito tra gli intenti e i risultati c’è una discrepanza, invece ho trovato degli ottimi compagni di viaggio e penso di essere stato molto fortunato, ed è anche il motivo per cui penso che oggi forse dalla musica ho ricevuto più di quello che ho chiesto. Questo è tutto merito delle persone con cui ogni giorno cerchiamo di portare avanti il progetto. Ovviamente nel corso di questi anni sono successe diverse cose positive che ci hanno fatto crescere, abbiamo incontrato persone che ci hanno aiutato a mantenere la prospettiva sugli aspetti costruttivi e belli di rimanere indipendenti, abbiamo vissuto belle esperienze live. La crescita maggiore è stata cercare di portare avanti questo percorso con il gruppo.

Roberto Bonfanti: per quanto riguarda il gruppo dopo la fase iniziale in cui ci stavamo conoscendo, c’era l’aspettativa e la necessità di continuare un percorso che si era indirizzato nella maniera corretta, secondo me c’è stata una crescita e una maturazione già tra il primo e il secondo disco. Il primo aveva una sua spontaneità che derivava dal fatto che ci eravamo appena conosciuti, il secondo invece aveva già una sua struttura, una consapevolezza maggiore. E il mio maggior desiderio, che rispecchia un’attitudine personale, era proprio quello di continuare a crescere sia da un punto di vista della scrittura che del prodotto finito e riguardo a questo sono abbastanza soddisfatto. Per quanto riguarda la composizione dei brani, dei loro messaggi, io all’inizio non riesco ad avere uno sguardo progettuale perché i testi li scrive Cristiano seguendo una sua idea ben precisa. Cerco di catturare gli stati d’animo man mano che le cose si realizzano, inizialmente è una pasta di creta e piano piano prende forma, anzi non nascondo che forse se si avesse più tempo la forma definitiva e più assoluta si avrebbe dopo molto che si lavora sui pezzi, chiaramente questo non è sempre possibile, ma stavolta ci siamo andati molto vicino e siamo parecchio soddisfatti.

Avete affermato che “Per una buona parte della nostra generazione, i modelli di riferimento erano per lo più incompatibili con il nostro modo di sentire. Ci siamo rifugiati nelle nostre stanze ad ascoltare dischi. Abbiamo messo in atto una ribellione silenziosa dalle camerette, dai garage, dalle sale prove ai circoli…”. Quali erano questi modelli di riferimento che non sentivate vostri? La musica dunque è stata un salvagente nel mare di incertezze dell’adolescenza e un porto salvo in cui rifugiarsi e costruire le vostre identità?

Cristiano Pizzuti: sicuramente il modello era quello del musicista mainstream forte e sempre vincente, parliamo degli inizi degli anni ’90, quindi non c’era ancora il movimento che si è sviluppato dopo basato sull’idea che vincere spesso non era tutto, che essere forti poteva avere declinazioni diverse dall’accezione principale. Per tante persone introverse, intimiste o semplicemente più emotive era difficile relazionarsi a modelli di musica molto muscolare e gratuitamente machista. Si parla ovviamente di quello che veniva promosso dai canali commerciali, a volte c’era la necessità personale di un qualcosa che ti portasse a un raccoglimento maggiore. Io, come tanti altri in quel periodo, ho cominciato ad ascoltare e a rifugiarmi in musica più “sottovoce” come quella dei Mazzy Star, o anche più “rumorose” come Sonic Youth, ma principalmente cose più intime. Quando non sei soddisfatto di quello che hai intorno, cerchi altrove e c’era tutto un mondo sotterraneo che stava uscendo fuori. Partendo dalle fanzine di carta e le cassette registrate tra i banchi di scuola per poi vivere la nascita di internet e quindi passando per napster e i primi blog e poi myspace e ora bandcamp. Grossomodo non è molto cambiata la situazione. È vero che l’indie col tempo ha modificato il mainstrean ma è vero anche che questa relazione doppia ha modificato a sua volta anche l’indie, quindi adesso inizia a diventare meno pertinente la definizione in cui noi ci identificavamo, infatti oggi ci mettiamo a scavare in bandcamp per cercare nuove band nuove persone che portano avanti un certo tipo di discorso.

Roberto Bonfanti: per quanto mi riguarda, riferendosi a certe preferenze musicali, era anche un modo per non sentirsi omologati, per differenziarsi. Quando ho iniziato a suonare non c’era molta gente che lo faceva e alla fine ci si ritrovava i gruppetti sempre più ristretti di appassionati di musica. Si parlava solo di quello eravamo quasi una sorta di setta (ride n.d.r.). Eravamo un po’ “emarginati” ma felici di esserlo perché pieni di passione. In realtà era molto faticoso fare musica, studiare, provare, spostarsi per suonare, bisogna privarsi di ogni altro divertimento per portare avanti la cosa che ci piaceva di più e che ci dava più soddisfazione. La cosa che ho imparato è che quando si adora la musica è come una malattia di cui sei portatore sano, è una passione da cui non si guarisce mai e questo ti portava a distinguersi dagli altri, oltre forse a un’ultima coda di controcultura in cui si tentava di fare cose che non erano abituali. Per quanto riguarda l’indie, è più che altro una questione commerciale, quando il mainstrean incontra qualcosa che funziona, tende a inglobarlo. Come è successo per il rock anni ’70 che poi è diventato un successo mondiale c’è stato a metà degli anni ’90 e primi 2000 quel movimento indie che vendeva e aveva una certa notorietà, ma non era una questione di genere musicale quanto più di concetto: ovvero persone che fanno musica senza il supporto di grandi budget e major alle spalle, con pochissime risorse dove l’unica cosa che conta, se ce l’hai, è la creatività. Secondo me ora l’indie vero è molto underground, non lo è mai stato così tanto, forse solo i primi due o tre anni agli inizi.

Cristiano Pizzuti: si è tornati a quella necessità di fare musica, in effetti il discorso potrebbe essere anche “politico”: è come dire non c’era spazio per questo tipo di musica quindi bisogna crearne appositi e se non lo fa nessuno, ce li creiamo da soli. Quindi ai tempi sono nati movimenti, salette, locali da esperienze di collettivi che magari occupavano strutture abbandonate, dando loro nuova vita e valore. C’era tutto un discorso associativo che seguiva quel tipo di filone. Si facevano feste nei garage, in casa, e tutt’ora si fanno e spesso sono le cose più belle quando suoni, più di riflettori e i palchi più “blasonati”. Non ho intenzione di stigmatizzare il mainstream ma occorre capire quale sia il percorso più adatto per ciascuno di noi.

Avete definito lo scrivere musica come una necessità, e da ragazzi è stata la vostra ribellione silenziosa. Oggi cos’è per voi fare musica? Cosa è cambiato da allora?

Cristiano Pizzuti: devo dire che non è cambiato tantissimo in termini di necessità, è prima di tutto un bisogno identitario. Avverto proprio la necessità di quella componente per esprimere qualcosa che altrimenti non saprei come esprimere. Ci sono in effetti tanti mezzi possibili, svolgo un lavoro creativo e sto a contatto anche con linguaggi diversi di comunicazione, ma non è la stessa cosa, ognuno di essi ha le sue peculiarità. Ovviamente questo ti porta al tipo di visione quasi obbligata che abbiamo avuto noi: fare musica poiché è il modo più semplice per ricordarsi la propria umanità. Non farlo diventare un lavoro, perché il lavoro include una serie di cose che la professionalità impone: compromessi, flessibilità. Noi invece vogliano che il fare musica rimanga un sogno reale, quindi non accettare troppi compromessi perché non ne deriva il nostro sostentamento. Questo significa ovviamente che la musica convive con molti altri impegni e responsabilità che non ti permettono di viverla tutti i giorni e tutti i momenti, però d’altra parte è un po’ il prezzo della libertà.

Nei vostri brani, sia nei testi che nei titoli, ci sono spesso riferimenti alla natura: alberi, stelle, stagioni, ma sono sempre legate o a un momento vissuto o al modo di porsi e le emozioni provate.  Sembra quasi costituirsi un “umanesimo naturale” o un “naturalismo interiore”, se così vogliamo chiamarli. Come nasce questo riferimento alla natura? Questo inserimento del sentire umano nelle espressioni naturali quali il passaggio di una cometa, il fiorire e maturare di un albero da frutto? Quanto la natura entra nella vostra vita quotidiana, fisicamente e soprattutto interiormente?

Cristiano Pizzuti: sicuramente la parte naturalistica è importante e si riallaccia  molto al territorio da cui veniamo. Siamo nella pianura pontina ma a due passi da Roma, dunque vicini alla metropoli ma anche a spazi naturali bellissimi appena esci dalla città, è un modo di rimanere legato al posto in cui sei nato e cresciuto. Vi svelo un mio piccolo segreto: ogni volta che iniziamo a registrare un disco, ho un rito, ovvero una passeggiata al lago di Fogliano, un giorno e due giorni prima. È una cosa che ti mette in armonia con il resto. Da un punto di vista più spirituale, io sono un grande fan della poesia inglese dell’800 e 900, di Emily Dickison in particolare, e queste suggestioni si sommano e se ti identifichi con quel tipo di sentimento, cresce dentro di te qualcosa che ti fornisce gli strumenti per osservare diversamente non solo la natura, ma tutto il resto.

Roberto Bonfanti: per quanto mi riguarda prima viene la musica e poi la natura. Nel senso che la musica ammorbidisce l’animo e acuisce un certo tipo di sensibilità che ti permette di catturare la Bellezza e dopo tante cose che si danno per scontate appaiono anche più belle di quel che sono. Le due cose vanno spesso di pari passo e si sposano ottimamente: ascoltare un disco stupendo osservando un bellissimo paesaggio. Comunque leggendo i testi di Cristiano si comprende che spesso la Natura si comporta come gli esseri umani, per esempio in Stars Colliding cita questo scontro tra stelle, o in The Great Comet of 1996, la cometa che nella sua fase più splendente è a un punto dalla morte, che è un po’ quello che fanno tutte le persone: per realizzare la propria vita ci si consuma piano piano, e si raggiungono i propri obbiettivi al meglio quando si è nella maturità, nelle nostre canzoni è facile trovare spesso tali similitudini. Per me il legame tra musica e natura è quasi spontaneo: quando si matura una certa sensibilità per la musica si iniziano a vedere le cose in una maniera differente.

Data l’emergenza del Coronavirus non si potrà organizzare eventi per qualche tempo, quindi purtroppo non potremo vedervi dal vivo per un po’, comunque l’album è acquistabile on line.

Cristiano Pizzuti: sì, sui consueti canali. È importante dare un segnale durante questa emergenza, in cui si è portati a razionalizzare tutto e a pensare che siano la freddezza e il metodo a salvare tutto, ma in questi momenti è importante che le persone siano in grado di tirare fuori la propria umanità. E quindi reagire è un modo per non farci sopraffare da questa situazione.

Roberto Bonfanti: è un momento difficile per tutti, purtroppo verrà a mancare tutta la fase promozionale, ma soprattutto verrà a mancare la parte dei live, il contatto diretto con le persone che ci seguono e ci hanno sempre seguito, che poi è la parte più bella e importante per noi. Ma rimane comunque tutto quel che c’è stato di buono: le persone con cui abbiamo collaborato durante le registrazioni, i nuovi incontri, le nuove collaborazioni.

Cristiano Pizzuti: speriamo che questo periodo di “allontanamento dalla normalità” porti le persone a capire l’importanza di andare ai concerti. Nel momento in cui non ci si può andare ci si rende conto quando ci manca.

L’album è acquistabile dal 13 marzo sulle principali piattaforme dedicate Spotify, Bandcamp. È possibile seguire tutte le novità sui Black Tail anche tramite la pagina facebook e il canale youtube della band. Riempiamo le nostre giornate in casa di buona musica, con la speranza di poter presto tornare ad ascoltare band e musicisti dal vivo.
 

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