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Cronaca

Giuseppe "Romolo" Di Silvio capo del clan: così impartiva ordini dal carcere di Rebibbia

Il vertice del gruppo è detenuto per l'omicidio del 2010 di Fabio Buonamano, ma nell'area verde della casa circondariale faceva riunioni con i familiari e organizzava gli affari

Il capo e il promotore di tutte le attività criminali del clan è indiscutibilmente Giuseppe "Romolo" Di Silvio, lo "zingaro anziano", lo definisce il collaboratore di giustizia Renato Pugliese in una delle conversazioni con gli investigatori. E' lui a dirigere il gruppo sgominato dalla nuova operazione "Scarface" e a rappresentarne gerarchicamente il vertice mantenendo un costante collegamento tra gli associati. Romolo infatti, detenuto a Rebibbia e condannato a 25 anni di reclusione per l'omicidio di Fabio Buonamano, incontrava i familiari e i sodali rimasti liberi nell'area verde della casa circondariale e da lì impartiva disposizioni sulla modalità di realizzazione delle estorsioni e sulla distribuzione dei profitti delle attività illecite.

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Per il gip del tribunale di Roma Rosalba Liso, Giuseppe detto Romolo viene riconosciuto come "portatore di una personale autorevolezza criminale, tanto che gli interlocuton sono convinti che una volta uscito dal carcere 'tremeranno tutti'". E' dunque il punto di riferimento di tutti i componenti del gruppo criminale che ha continuato ad operare in città attraverso estorsioni e intimidazioni e attraverso la gestione delle piazze di spaccio in alcuni quartieri cittadini e in altri comuni della provincia. Dopo la morte del fratello Ferdinando, detto il Bello, ucciso in un attentato al lido di Latina, aveva di fatto assunto il comando della clan, autorizzando ogni azione criminosa. Nelle riunioni in casa sua, come emerge dalle dichiarazioni rese dei collaboratori di giustizia, tra i quali figura anche Maurizio Zuppardo, si discuteva di affari con tutti ma la decisione finale spettava solo a lui. Sempre a Romolo del resto dovevano chiedere il permesso anche figli, fratelli e nipoti. 

Una particolare attenzione era dovuta anche al mantenimento delle famiglie dei detenuti e alla quota con cui ciascun componente del gruppo doveva contribuire. Infine, sprona ripetutamente i figli, Antonio detto "Patatino" e Ferdinando Di Silvio detto "Prosciutto", e il genero a impegnarsi di più negli affari di famiglia, cercando di contenere al contempo le intemperanze di Patatino, "perché le armi - dice devono essere usate solo quando c'è il concreto pericolo di essere uccisi".

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