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Cronaca

Un giovane cooperante di Latina in Iraq: la sua testimonianza e il suo appello per la pace

Si chiama Luigi Pappalardo. La sezione pontina del Movimento Federalista Europeo ha condiviso il suo messaggio

Luigi Pappalardo è un giovane cooperante di Latina, militante della sezione del Movimento Federalista Europeo, che attualmente vive nel Kurdistan iracheno, nel Governatorato di Erbil. Luigi lancia un appello per la pace, proprio da dove la guerra è più vicina, e scrive nero su bianco i propri pensieri, la testimonianza di chi vive da vicino uno scenario spaventoso. 

La sezione di Latina del Movimento Federalista vuole condividere questa testimonianza, che riportiamo e pubblichiamo integralmente di seguito. 

Ancora una volta il mondo ha davanti uno scenario di guerra possibile. Sentiamo forte l'esigenza di superare gli egoismi internazionale e di garantire all'Europa e all'intero globo la pace, cosa possibile soltanto con le unificazioni regionali di tipo federale a cominciare dall'Unione europea. Ogni volta salutiamo l’anno che si chiude con rimorsi per gli errori commessi, ma con la speranza che l’anno che verrà possa essere migliore, che le guerre possano magicamente finire nel nuovo anno e le persone possano vivere la loro vita in pace e serenità in tutto il mondo. Ma ecco che anche il 2020 viene rovinato sul nascere da una nuova guerra.

Questa volta per me però è particolarmente straziante, perché quest’anno per la prima volta non mi trovo nella mia Latina a guardare da lontano, ma sono qui, dove la vita di milioni di persone sta per essere stravolta dall’ennesima guerra. Mi chiamo Luigi, sono stato segretario della locale sezione e militante del Movimento federalista europeo, e da qualche mese lavoro nella cooperazione internazionale nel Kurdistan Iracheno nel Governatorato di Erbil. Lavoriamo in una città meravigliosa, che in solamente due anni si è rialzata dalle tragedie lasciate dall’Isis, conoscendo alcuni dei protagonisti di questa ricostruzione e centinaia di persone che ogni giorno lavorano per rendere questo paese un posto migliore.

La mattina del 3 gennaio 2020 però tutto è cambiato, ancora. L’espressione sul viso di tanti amici e amiche è cambiata e tutti cerchiamo di fare previsioni di quello che sarà il futuro qui. La regione del Kurdistan gode di un’autonomia speciale che ci assicura un buon grado di sicurezza, qui lavoriamo per lo sviluppo economico e sociale della popolazione, mentre nel resto dell’Iraq altri amici ancora lavorano alla ricostruzione, dove le macerie dell’Isis sono ancora visibili. Poi ci sono gli amici di Baghdad, con cui ho trascorso il primo Natale iracheno, che da oltre tre mesi aiutano i ragazzi e le ragazze che protestano a Piazza Tahrir contro un governo diviso per etno settarismi, i quali membri governano per tutelare gli interessi particolari dei propri gruppi etnici o settari. Proprio da questa forma di governo che ha soppresso i musulmani sunniti, rei aver appoggiato Saddam Hussein prima del 2003, è nato l’Isis. La storia dell’Iraq è una storia di soppressori e soppressi che si scambiano di ruolo nel corso dei decenni. Per questo, i ragazzi e le ragazze di Piazza Tahrir protestano pacificamente al grido di “Siamo tutti iracheni”, spesso proprio sulle note della nostra “Bella Ciao” cantata in arabo e in italiano, rigettando le divisioni etniche, politiche e religiose. Protestano anche contro il controllo che l’Iran ha ottenuto sul governo iracheno, dopo aver contribuito in maniera significativa grazie alle milizie iraniane di Qasem Suleimani a sconfiggere l’Isis. Protestano perché da quella vittoria del 10 dicembre 2017 le milizie iraniane non hanno mai lasciato l’Iraq. E proprio queste milizie vengono oggi utilizzate dal governo iraniano per attaccare gli americani in Iraq, come nel caso dell’occupazione dell’ambasciata americana a Baghdad lo scorso 31 dicembre, e dal governo iracheno per sopprimere nel sangue le proteste, oltre 500 persone sono state uccise in tre mesi. Solamente qualche settimana fa ci arrivò la notizia della scomparsa di due amici attivisti a Baghdad che aiutavano i giovani e le giovani in protesta portando viveri e letti. In quel momento speravamo tutti nella stessa cosa: che non fossero stati presi dalle milizie. Perché essere presi da loro, spesso, significa pagare con la vita. Fortunatamente pochi giorni dopo scoprimmo che erano stati arrestati dalla polizia irachena, che dopo una campagna internazionale della società civile è stata costretta a rilasciarli.

Qasem Suleimani, comandante delle Guardie iraniane di Rivoluzione, il più delle volte era proprio il mandante di questi assassini. Un signore della guerra amato in Iran, ma detestato in Iraq. La sua morte ha creato sentimenti contrastanti e confusi in tutti noi che viviamo in questo paese. Suleimani non era un terrorista, ma il comandante di un esercito regolare che esercita la sua influenza in Libano, Siria e Iraq con il permesso del governo ospitante. Era esattamente uno dei motivi delle proteste, i giovani e le giovani di Piazza Tahrir volevano cacciare lui e le milizie iraniane dal paese, non ucciderli. Perché tutti hanno realizzato che ora il suo assassinio significherà lo stravolgimento della loro vita, un’altra volta. Noi cooperanti temiamo che il nostro lungo lavoro di pace rischia di essere distrutto in un secondo, alcuni progetti sono già stati sospesi e tutti gli americani stanno evacuando il paese nella notte: sospendere un progetto significa che migliaia di bambini non potranno più andare a scuola o che altrettanti rifugiati non potranno accedere ai servizi nei campi in cui vivono. Ma soprattutto temiamo che i nostri amici di Baghdad e nel resto dell’Iraq rischiano di ritrovarsi in un terribile campo di guerra tra Stati Uniti e Iran.

Per questo siamo qui tutti a chiedere alle nostre città natali, a qualsiasi contatto abbiamo nel mondo, di condannare concretamente qualsiasi ulteriore atto di violenza nei confronti dell’Iraq, che chiede solamente pace dopo decenni di guerre e morti.

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