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Il caso

Trasfusioni di sangue infetto: dopo 54 anni 300mila euro di risarcimento per un anziano

La trasfusione al Goretti nel 1968 quando l’uomo aveva 31 anni; nel 1996 la scoperta della positività al virus dell'epatite C e nel 2022, all’età di 85 anni, il risarcimento dopo la sentenza della Corte di Appello di Roma

“Attesi 54 anni per avere giustizia”: questo il commento del legale dell’uomo di 85 anni che trasfuso con sangue infetto nel 1968 al Goretti di Latina riceverà ora un risarcimento di poco meno di 300mila euro secondo quanto stabilito, lo scorso martedì 18 ottobre, dalla Corte di Appello di Roma. Lo Stato italiano, infatti, aveva appellato la precedente sentenza del Tribunale di Roma del 2014 di condanna al risarcimento.

A ricostruire la storia dell’85enne è l’avvocato Renato Mattarelli che lo ha assistito: l’uomo di Latina era stato contagiato dal 1968 all'età di 31 anni ed aveva poi scoperto di essere positivo al virus dell'epatite C solo nel nel 1996 quando la malattia lo aveva, nel frattempo, danneggiato silenziosamente. “Dopo 54 anni di convivenza con un virus, che non ha mai smesso di ‘mangiargli’ lentamente il fegato, e dopo due lunghi processi di primo e secondo grado che hanno confermato l'impianto processuale c’è una certezza: le trasfusioni del Goretti del '68 che gli hanno rovinato la vita erano infette e potevano essere evitate. Questo spiega il perché, ancor prima di scoprire nel 1996 di essere stato contagiato, l'uomo si sentiva sempre stanco, tanto da essere considerato uno sfaticato. La verità è che era affetto dal 1968 da una malattia che al tempo non era nemmeno conosciuta e che gli provocava una spossatezza per cui veniva deriso da colleghi e amici. All’epoca infatti il virus HCV responsabile dell’epatite C non era ancora stato isolato e solo nel 1988 venne approntato il primo test”.

Proprio su questo lo Stato italiano ha appellato la sentenza del Tribunale che aveva accolto la tesi del legale secondo cui “a prescindere dalla scoperta del virus responsabile dell'epatite C (che in effetti nel 1968 era sconosciuto) e del fatto che solo 20 anni dopo (1988) venne approntato il primo test per rilevare l'HCV nel sangue dei donatori, la responsabilità per i contagi da trasfusioni di sangue delle ammnistrazioni sanitarie non decorre dagli anni in cui la scienza aveva scoperto il virus ma da quando, con i mezzi diagnostici a disposizione all'epoca, era possibile indirettamente evitare il contagio e quindi già negli anni ’60. Il Tribunale prima, e la Corte di Appello di Roma poi, hanno quindi accertato e confermato che le trasfusioni di sangue somministrate nel 1968 al Goretti di Latina all'allora 31enne potevano essere controllate ed evitate (se non direttamente per il tipo di virus e il test sconosciuto all'epoca), almeno indirettamente, ad esempio attraverso la distruzione del sangue dei donatori che presentavano valori elevati delle transaminasi quali indici di una sofferenza epatica (a sua volta indice di un'infiammazione virale)”.

Fra i fattori della vittoria giudiziaria c'è la “scoperta” da parte dell'avvocato Mattarelli di una remotissima sentenza della Suprema Corte di Cassazione del Regno d'Italia del 1936 (precedente quindi alla seconda guerra mondiale che occasionò l'uso massimo delle trasfusioni di sangue sui feritti e all'Italia repubblican) che dichiara quasi 100 anni fa la pericolosità infettiva delle emotrasfusioni: “...è di comune conoscenza che la trasfusione del sangue, rimedio prezioso per casi clinici talvolta disperati, è anche il mezzo diretto e sicuro per comunicare infezioni da soggetto a soggetto...

“A parte questa vittoria che arriva a 54 anni dall'illecito trasfusionale del 1968 resta il fatto che l'oramai 85enne pontino ha dovuto convivere con un virus subdolo che non ha risparmiato solo in Italia la morte di decine di miglia di persone - conclude il legale -. Dalla scoperta del 1996 del contagio, l'uomo vive in simbiosi con cure e farmaci che, come l'interferone, gli hanno provocato eventi avversi e nuove patologie reattive compresa una sindrome ansioso-depressiva da consapevolezza, non solo, di essere stato infettato ma, anche, di essere un soggetto a sua volta infettante”.
 

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