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American Buffalo: la miseria e il sogno americano in una “puteca” napoletana

Prodotto dal Teatro Eliseo di Roma, arriva a Latina lo spettacolo diretto e interpretato da Marco D’Amore, su un testo del Pulitzer David Mamet, rivisto e adattato per il teatro da Maurizio De Giovanni

Moderno e classico, presente e passato, la miseria e il sogno americano: questi sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano American Buffalo, l’opera teatrale del Premio Pulitzer David Mamet, rivista e trasportata in una Napoli di oggi niente meno che da Maurizio De Giovanni, il celebre papà del commissario Ricciardi e l’Ispettore Lojacono. Spettacolo che in questi giorni è andato in scena al Teatro Moderno diretto da Gianluca Cassandra.

Un curriculum già di tutto rispetto per uno spettacolo che è diretto e interpretato da Marco D’Amore, conosciuto dal grande pubblico per la sua interpretazione di Ciro Di Marzio nella serie televisiva Gomorra, al quale si aggiungono le interpretazioni dei bravissimi Tonino Taiuti e Vincenzo Nemolato.

Donato Russo (Tonino Taiuti), che tutti chiamano Don, ha una “puteca”, il classico negozietto di chincaglierie e robivecchi dove si accumulano oggetti di vario genere, per lo più ciarpame, tra i quali però si possono scorgere fortuitamente dei tesori. Don ha una viscerale passione per l’America, della quale ama la musica, la lingua e lo stile di vita.

Un giorno, dopo aver venduto a un tizio una vecchia monetina, si accorge che in realtà questa moneta, l’American Buffalo che dà il titolo alla pièce, è un pezzo rarissimo dal quale è possibile ricavare incredibili somme, da qui il desiderio di recuperare la moneta rubandola al suo cliente.

Lo fa pedinare da Roberto (Vincenzo Nemolato), il tipico guaglione dalle mille risorse e sempre al limite della legalità, e decidono insieme di escogitare un piano per andare a rubare a casa di quest’uomo. Qui entra in ballo O’ Professore, interpretato da Marco D’Amore, che entra prepotentemente nel “lavoretto” in virtù della sua supposta superiorità intellettuale.

Lo spettacolo, che rispetta il canone aristotelico (unità di luogo, tempo e azione), si svolge nella bottega di Don con i tre personaggi che entrano ed escono in un continuo andirivieni. Questo approccio classico non incide affatto sul ritmo serrato della narrazione, che anche grazie a un’alternanza creativa di napoletano e inglese è divertente e tragicomicamente molto realistica.

Nei vari tentennamenti dei tre protagonisti si legge tutta la tragicità delle loro esistenze: fatte di miseria, povertà e desiderio mai appagato di una vita del tutto diversa. E se il sogno americano si intravede in una bandiera, negli stivali da cowboy di Don e nella musica che tanto spasmodicamente cerca alla radio, è solo un miraggio, che permette al protagonista di allontanarsi dal quotidiano e immaginarsi in un luogo lontano, in un’esistenza del tutto differente.

O’ Professore, manipolatore, gretto e furbo, si dà un tono per nascondere la sua condizione di mentecatto al pari degli altri due, non esita a tramare, a mettere l'uno contro l’altro Don e il ragazzo, per trarne vantaggio. Così come Roberto, cresciuto in una realtà povera e truffaldina, non si vergogna di chiedere soldi, fare la cresta sul caffè, usare gli spiccioli che racimola per le droghe pur riuscendo a conservare un animo candido e fiducioso.

La scenografia (di Carmine Guarino), suggestiva e piena zeppa di oggetti, fa da perfetto contraltare al deserto esistenziale dei personaggi che la popolano, disposti a tradirsi, ad allontanarsi gli uni dagli altri. Giustizia e amicizia, citate sia da Don che dal Professore, sono due perni dello spettacolo, presenti perché costantemente avviliti e aggirati, per cogliere al volo l’occasione che li renda ricchi, per approfittare del guadagno facile, per dimostrare la loro “cazzimma”.

Un testo mirabile, ottimamente trasposto in un tempo (l’opera di Mamet è del 1975) e in un luogo diversi, che presenta temi purtroppo sempre attuali e che in questa trasposizione tutta italiana, regge il confronto con il film di Michael Corrente del 1996 che vede protagonista Dustin Hoffman nei panni del Professore (The Teach).

Ottimo il lavoro di D’Amore che, con la cura delle interpretazioni, del ritmo, delle musiche e le luci fortemente espressive, è riuscito a portare a teatro uno spaccato dei bassi fondi di una Napoli moderna, che non sono poi così diversi da quelli della Chicago del 1975.

(Foto in basso tratte dal sito ufficiale del Teatro Eliseo)

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