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Cultura

A Opera Prima Fabrizio Saccomanno in scena con “Gramsci Antonio, detto Nino”

Uno spettacolo che omaggia Antonio Gramsci, grande politico, filosofo e giornalista del '900 ma soprattutto un uomo che ha affrontato con coraggio la condizione di condannato politico: in scena il suo lato umano

Una scena essenziale in cui campeggia l’uomo: come la vita di chi non ha avuto niente di materiale, ma una grande passione e forti affetti nel cuore e nella testa, così si presenta al pubblico la scena di Gramsci Antonio, Detto Nino.

In questi giorni Fabrizio Saccomanno protagonista e autore, insieme a Francesco Nicolini, di questa pièce dedicata a uno degli uomini più significativi del ‘900, è stato ospite di Opera Prima Teatro di Latina.

Saccomanno non ci ha raccontato le gesta e gli scritti pubblici di Antonio Gramsci, ma ci ha raccontato la parte più tenera, coraggiosa, sognatrice, ironica e intima di questo grande uomo: attraverso le lettere che ha scritto alla moglie Julka, ai figli Delio e Giuliano, alla mamma e all’affezionata cognata Tania, durante il difficile periodo della prigionia nel carcere di Turi in provincia di Bari.

Fabrizio Saccomanno è solo sul palco, seduto su una sedia, stretto in un cappotto, un cappotto semplicissimo che Gramsci sognò per tutta la sua giovinezza e che, a causa delle continue ristrettezze economiche, ha potuto avere solo in età adulta.

Una carrellata velocissima sull’infanzia e il periodo degli studi, ancor più veloce sulla sua vita politica e i rapporti con gli amici conosciuti all’università di Torino che  diventeranno poi compagni di partito, l’incontro con la moglie e il precipitarsi della situazione fino alla condanna a vent’anni di carcere.
Proprio nel carcere comincia il vero racconto di Antonio, che si abitua pian piano alla vita della prigione e alimenta ogni sua speranza, ogni suo contatto con la realtà attraverso le lettere dei suoi cari, unico stimolo e momento di felicità in un’esistenza grigia e di malattia.

Antonio Gramsci scherza, racconta aneddoti dell’infanzia, detti popolari della sua Sardegna, è un padre amorevole che cerca di instillare nei figli quell’amore per il sapere e quella curiosità e desiderio di comprensione della realtà e del quotidiano che lo hanno sempre contraddistinto. Non parla del carcere, non parla delle sue precarie condizioni fisiche, incoraggia i suoi cari e li tranquillizza.
Ma la vita in carcere è dura e, quando non ce la fa proprio più, chiede di essere trasferito in un ospedale, a sue spese ovviamente, e li muore dopo poco tempo, deluso, arrabbiato e solo.

Un uomo sul palco, con pochissimi movimenti anche solo con uno sguardo, ha saputo catturare la totale attenzione del pubblico, ha saputo con pochi gesti delle mani, delle spalle, da seduto, raccontare il travaglio interiore di un uomo e in maniera indiretta, il travaglio di una famiglia, di un partito e di una nazione che sullo sfondo veniva martoriata dalla miseria e dalla guerra.
L’attore salentino attraverso un fiume di parole e una potente mimica corporea, che ipnotizza lo sguardo e rende partecipi di ogni emozione del protagonista, immerge lo spettatore nel racconto di vita intima di un personaggio pubblico, che in realtà era soprattutto un figlio, un fratello, un marito e un padre.

Si ride con Gramsci, si piange, ci si arrabbia e poi Saccomanno, in un totale cambio di registro e di toni, geniale quanto inaspettato ci fa tuffare nel presente, come se l’uomo Saccomanno prendesse il sopravvento sull’attore, lasciando il pubblico con una provocazione e una serie di interrogativi: è servito tutto questo? Gli ideali che ha portato avanti Gramsci con tanto coraggio e tanta sofferenza, oggi che significato hanno?

Sulla scena rimane il ritratto di Nino con lo sguardo sognante e determinato allo stesso tempo, una sedia vuota e per terra tante pagine scritte.

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